Sergio Lombardo

a cura di / curated by Davide Di Maggio (London)

ANNO 2023

Conversazione con Sergio Lombardo di Davide Di Maggio

- Buongiorno Sergio. Quando hai deciso di voler fare l'artista?
Buongiorno Davide. Non ho mai deciso di fare l’artista, ancora oggi mi ritengo uno sperimentatore scientifico che si occupa di ricerca avanzata nel campo dell’estetica, della percezione visiva e delle teorie dell’arte. Secondo me “fare” l’artista è presuntuoso, perché non possiamo essere noi a definirci artisti, ma deve essere la storia a farlo. E la storia viene scritta ex post, non ex ante. Noi possiamo solo fare scommesse con la storia, come dei giocatori d’azzardo. Ma per giocare d’azzardo con la storia ci vuole una strategia, bisogna chiarire bene la teoria e i valori sui quali scommettiamo, altrimenti tutti diranno di aver vinto la scommessa e non ci sarà mai un grande artista.

- Chi è stato o chi sono stati i personaggi o gli avvenimenti determinanti per questa tua scelta?
Se vuoi sapere quali sono stati gli artisti che mi hanno più attratto nel contemporaneo, ritengo assolutamente fondamentale il Futurismo, poi Jackson Pollock, Mark Rothko, John Cage, Allan Kaprow, Francesco Lo Savio, Piero Manzoni, Sol LeWitt.

- Hai iniziato il tuo percorso artistico giovanissimo, alla fine degli anni '50 in una mostra collettiva a Roma nel 1958 dove tra gli altri incontri due artisti, Renato Mambor, che ricordo con grande affetto, e Cesare Tacchi, con i quali hai condiviso una parte della tua vita d'artista. Rammenti quale lavoro fu esposto in quell’occasione e che ricordi hai di quel tempo?
Era il 1958, avevo 18 anni, esposi un “monocromo” alla mostra del Partito Comunista di Cinecittà, ma fui accusato di essere un “nemico di classe”. Dicevano che avevano accettato il mio quadro solo “per far vedere come non si deve dipingere”. In quell’occasione però conobbi quelli che poco dopo sarebbero stati i protagonisti della Scuola di Piazza del Popolo. Il centro di questo movimento era la galleria La Tartaruga di Plinio de Martiis e Ninnì Pirandello, appunto a Piazza del Popolo. A La Tartaruga all’inizio del 1963 presentai una mostra di gruppo, insieme a Renato Mambor e Cesare Tacchi. In quell’occasione esposi per la prima volta i Gesti Tipici, creando “un considerevole effetto di shock sulla giovane pittura romana” come raccontava Cesare Vivaldi (Collage n.5, La giovane scuola di Roma, 1965).

- Nel 1959 a vent'anni, hai iniziato a dipingere i Monocromi. So che questo è stato per te un passaggio molto importante. Me lo puoi raccontare?
Nel 1959 veramente avevo 19 anni, perché sono nato di dicembre, ma i monocromi li avevo iniziati già nel 1958 partecipando alla mostra di Cinecittà, quando avevo 18 anni. Effettivamente l’esperienza dei Monocromi fu decisiva perché mi trascinò in una catena di eventi che giunge fino ad oggi. Alla base di quella scelta c’era il mio scetticismo radicale nei confronti della critica d’arte e contemporaneamente la mia grande attrazione per l’arte, per l’estetica. I critici mi sembravano confusi e presuntuosi, inutilmente retorici, davano giudizi di gusto senza alcuna base scientifica ed erano sempre in contraddizione fra loro. Perciò volli fare un quadro eliminando tutto quello che piaceva ai critici: la creatività, l’espressione personale, l’emozione cromatica, il gusto compositivo, la centralità dell’immagine, l’abilità artigianale, la fantasia, la comunicazione di contenuti speciali e la rappresentazione di qualsiasi altra cosa che non fosse il quadro stesso. Ne venne fuori un “tiling” di cartoncini verniciato con smalto industriale monocromo. Eppure questi quadri senza senso mi attraevano più di qualsiasi opera “artistica”. Mi resi conto che lo sguardo del pubblico “proietta” la bellezza nell’opera, mentre al contrario qualsiasi contenuto già inserito nell’opera da parte dell’Autore inibisce questa proiezione.

- Sei passato, facendone parte, attraverso le avanguardie degli anni '60, come uno degli artisti più importanti della Scuola Romana.
Basterebbe scorrere i nomi di alcuni degli artisti presenti a Roma in quegli anni per comprenderne l'atmosfera: Afro, Burri, Festa, Kounellis, Lo Savio, Schifano, Scialoja. Perilli, Novelli, Dorazio, Turcato, De Kooning, Kline, Guston, Rothko, Twombly, Rauschenberg, Stella e tanti altri. Da allora si sono avvicendate almeno quattro generazioni d'artisti. Come hai vissuto quell’esperienza e come vedi la situazione artistica di oggi a Roma e in generale in Italia?
L’arte dopo la seconda guerra mondiale ha avuto un’esplosione planetaria, su basi economiche e politiche, che ha parzialmente tolto la centralità iconofila che Roma aveva avuto per molti secoli. Oggi Roma è un centro fra tanti. A mio parere però la peculiarità italiana e romana poggia piuttosto sulle teorie estetiche che non sul mercato o sulla politica. E le teorie estetiche sono il motore generativo della grande arte e dell’identità dei popoli.

- Negli anni '80 hai iniziato ad usare il processo stocastico per realizzare forme senza senso, ma già negli anni '60 usavi questo processo nei Super - componibili e nei Punti Extra. Poi nel 1972 lo usasti nei Concerti Aleatori per produrre musica stocastica. Quando e perché sei rimasto affascinato dalla stocastica, che ti accompagna fin quasi dall'inizio della tua attività artistica?
Una volta eliminata la creatività arbitraria e la scelta intenzionale, una volta assunto l’atteggiamento che io chiamo di “astinenza espressiva”, l’unico generatore di evoluzione rimane il caso, come accade anche nella natura. L’evoluzionismo, come l’intelligenza stessa e anche l’AI generativa ed evolutiva, prevedono una fase casuale che genera errori seguita da una fase di selezione degli errori alla ricerca di un migliore adattamento.

- La mostra da Cardi Gallery a Londra è caratterizzata dal bianco e nero. Cosa rappresentano per te questi due colori, o non colori, che amo molto?
Il bianco ed il nero sono il minimo essenziale di qualsiasi linguaggio, il minimo d’informazione che rende inutile qualsiasi aggiunta. Inoltre stanno alla base della percezione notturna, latente e inconscia, che riguarda il sistema attacco-difesa, il sistema d’allarme, l’istinto, l’imprevisto. I colori entrano in gioco invece di giorno nell’analisi consapevole, nella ricerca intenzionale, quando si è al sicuro.

- Amo particolarmente la tua serie dei Gesti Tipici, che ha caratterizzato la tua attività artistica dal 1961 al 1963. Come nascono ed esiste un rapporto tra il tuo lavoro e la realtà che ti circonda?
Quando dipinsi i primi Gesti Tipici nel 1961 non volevo fare l’artista, volevo studiare l’impatto psicologico che potevano avere gli atteggiamenti autoritari quando venivano percepiti nell’ombra attraverso la visione periferica, con la coda dell’occhio. Spesso questi atteggiamenti autoritari erano assunti da personaggi della politica, perciò usai i personaggi politici che trovavo sui giornali e sulle riviste come modelli. A quei tempi il linguaggio non verbale non esisteva come scienza, Desmond Morris pubblicò “Man and his Gestures” molti anni più tardi.

- Che relazione ha, se ce l'ha, il tuo lavoro con la memoria?
Stimolando la proiezione di contenuti profondi e inconsci certamente si mette in gioco la memoria a lungo termine, ma rispetto a queste proiezioni involontarie io divento uno spettatore come gli altri.

- Lo spazio in cui lavori è importante per te?
I miei studi sono sempre stati molto grandi perché volevo fare opere molto grandi.

-  Sei ossessionato da un'idea prima di cominciare a lavorare?
Il mio lavoro è essenzialmente teorico e si materializza in algoritmi o sistemi di algoritmi. L’esecuzione materiale potrei lasciarla ad altri, ma sono ansioso di vedere ciò che scaturisce da algoritmi che creano oggetti imprevedibili.

-  Lavori contemporaneamente a più quadri? E in genere sono una serie o sono legati tra loro?
Si, sono cicli di opere sempre diversi fra loro e imprevedibili, non c’è uno stile unitario riconoscibile, ma ogni ciclo è strettamente coerente con l’evoluzione della teoria.

- Il filosofo tedesco Adorno ha detto che l'unica forma di critica verso le società è fare un'arte rigorosa. Sei d'accordo?
Si. Ma io non voglio fare il critico della società, voglio cambiarla radicalmente in senso evolutivo. Dal mio punto di vista il sistema della geometria euclidea è obsoleto. Il mio cervello vive in un mondo topologico senza centro e senza contorno, infinitamente elastico e infinitamente dinamico, appunto stocastico.

- L'arte ha assunto negli anni un ruolo sempre più sociale, spesso legato al momento storico che l'artista sta vivendo. Non mi ci ritrovo in questa evoluzione, anche perchI penso che l'arte debba avere una sua perennità e non essere legata a periodi o epoche, mantenendo una sua autonomia temporale. Nella mia recente ed ennesima visita
allo stupefacente Altare di Isenheim (1516) di Matthias Grunewald a Colmar, la Cappella Sistina del Nord Europa, uno dei capolavori pittorici dell'umanità, senza tempo, ho avuto la conferma di questo. Un'opera che mantiene una sorprendente contemporaneità in ogni epoca. Nei tuoi lavori storici, ritrovo sempre questa perennità, una sorprendente contemporaneità a più di sessant'anni dalla loro realizzazione.
Cosa ne pensi? Credi che il tuo lavoro abbia anche una “funzione sociale”?
Secondo me l’arte è un modello rappresentativo di nuovi valori che funzionano da catalizzatori di nuove culture nascenti, in questo senso, involontario, l’arte ha una funzione sociale. Non credo a un’arte eterna basata su eterni valori umani, come credeva ad esempio Ernst Gombrich, o Alois Riegl. Finora infatti l’arte è stata immaginata in un mondo concluso, idealistico e statico. Pre-quantico, direi. Qualcosa o era arte o non era arte. Se lo era, lo era per sempre. Se non lo era, non lo era per sempre. Io invece credo che l’arte sia una costruzione culturale temporanea, soggetta a fluttuazioni imprevedibili. Un oggetto è arte o non è arte solo all’interno di una cultura storicamente definita. Un’arte assoluta ed eterna, valida per sempre e per tutti non esiste.

-  Negli ultimi anni il sistema dell'arte si regge su forti poteri economici che ne hanno cambiato radicalmente la sua evoluzione e che sviluppano un mercato sempre più elitario e selezionato. In qualche modo ti senti influenzato da questo cambiamento e che funzione ha o dovrebbe avere l’arte secondo te oggi?
L’arte per definizione non è e non può essere popolare come la Coca-cola, né virale come la pornografia. L’arte è sempre elitaria, settaria, segreta. Se fosse popolare non cambierebbe i valori dell’umanità, sarebbe solo intrattenimento, decorazione.

- Sai che vengo da una tradizione famigliare Fluxus. Robert Filliou ha scritto che bisogna produrre un'arte che renda la vita più interessante dell'arte. Come commenti?
Robert Filliou ha ragione.

- Ho letto di recente un'intervista di Enzo Cucchi del 1984 dove si definiva un artista leggendario, perché le leggende sono le uniche cose vere che esistono e continueranno ad esistere. Vuoi restare nella storia dell'arte e diventare a tua volta una sorta di leggenda?
Enzo Cucchi ha ragione.

Ho curato questa mostra con estrema attenzione perché amo il tuo lavoro e con grande affetto per te. Grazie Sergio per questa opportunità.
Grazie mille a te Davide